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Monde arabe

Pierre PICCININ da PRATA (Historien - Politologue)

SIRIA - Viaggio all'Inferno

Siria – Viaggio all'Inferno : nel cuore delle prigioni dei servizi segreti siriani (Le Monde, 7.6.2012; L'Espresso, 8.6.2012; Le Soir, 11.6.2012; Neue Luzerner Zeitung, 23.6.2012)

 

 

Homs par Lute Baele

                                                                                               © LB-Pierre PICCININ

 

  

 

  

   

Liban-Syrie-Mai-2012 1195 - Copie[photo : Tal-Biseh]

 

 

 

 

 

 

E’ una responsabilità pesante quella di scrivere. E’ importante saper riconoscere i propri errori, le omissioni, soprattutto quando ne va della vita umana…

 

Il 15 maggio 2012 sono entrato in Siria per un terzo soggiorno di osservazione, il cui scopo era quello di realizzare una cartografia e uno stato di fatto preciso delle roccaforti dell’opposizione al regime, e di valutare sul terreno stesso il potenziale reale dell’Armata siriana libera (ASL), e la sua eventuale capacita di rovesciare il regime attuale.

 

Per fare questo mi sono interessato in un primo tempo alle città di frontiera, dove si concentrano gli attacchi dell’ASL contro l’armata regolare, Deraa, Zabadani, Quosseir, Tal-Kalakh, Homs, Tal-Biseh, Rastan e Idleb, città tenute del tutto o in parte dall’ASL, che riceve appoggio logistico dalle sue basi in Turchia e in Giordania e dai partigiani del clan Hariri nel Libano del nord.

 

Al tempo dei miei primi passaggi in queste zone, nel mese di luglio 2011 e successivamente fra dicembre e gennaio, avevo ottenuto l’accordo delle autorità e ricevuto un visto d’entrata  da parte dell’Ambasciata di Siria a Bruxelles. Questa volta il mio approccio e’ stato differente: ho attraversato la frontiera libanese al posto di controllo di Masnaa per poi raggiungere Jdaidit, dove, per quanto possa sembrare strano, con un po’ di fortuna è possibile ottenere un visto senza alcuna formalità. Sono dunque entrato in Siria in modo del tutto legale, a partire dal Libano (dove, approfittando del mio passaggio, ho potuto assistere agli scontri che oppongono gli Alauiti di Tripoli ai Sunniti hariristi che assediavano il loro quartier, avvenimento rivelatore dell’estensione del conflitto siriano al vicino territorio libanese).

 

Dopo aver noleggiato un’automobile a Damasco ho cominciato a circolare nel paese. Sono stato a Homs e ho fotografato gli accampamenti dei ribelli in rovina dopo i bombardamenti dell’armata siriana; a Tal-Biseh, in mano all’opposizione, dove ho potuto parlare con dei miliziani dell’ASL, ma anche con lo staff del comandante della postazione, ben organizzata, equipaggiata e in contatto logistico con le altre postazioni tenute dall’esercito ribelle; poi a Rastan, dove l’esercito è schierato proprio di fronte alla città anch’essa interamente nelle mani dell’ASL, dove ho assistito ai combattimenti; ma non sono potuto entrare. Poi sono stato anche ad Hama.

 

Il 17 maggio mi sono presentato al check-point dell’armata regolare davanti a Tal-Kalakh, nella regione di Homs. Attendevo da circa due ore l’autorizzazione per entrare in città quando mi si sono presentati davanti uomini armati; potevo entrare in città a condizione di essere accompagnato da loro e su un loro veicolo, cosa che ho accettato.

 

La trappola si e’ chiusa in qualche minuto e il mio viaggio all’inferno e’ cominciato quel giorno verso le 17...

 

In effetti, appena salito sul loro veicolo, mi hanno ammanettato sulla schiena e portato nei loro edifici, dove sono stato abbandonato per qualche ora in una piccola cella in cemento surriscaldata dal sole battente. Mi hanno tolto il telefono cellulare ; non avevo più nessun mezzo per comunicare e non era più possibile localizzarmi.

 

Da lì, nella serata, sono stato trasferito al centro dei servizi segreti di Homs, dove mi hanno privato di tutti gli effetti personali, mentre sentivo già attorno a me, inquieto, delle grida spaventose; e immaginavo benissimo quello che stava succedendo in quell’edificio.

 

Dopo un po’ due agenti mi hanno portato in un altro edificio. Le urla erano cessate. Stavano pulendo il pavimento a secchiate d’acqua da qualcosa che, chiaramente, era sangue. Tutto era sporco, le porte, i muri, le piastrelle, tutto lurido.

 

In un primo momento sono stato messo ad aspettare in una piccola stanza, ancora ammanettato, seduto su una sedia davanti ad una scrivania coperta di tracce di sangue, di vomito, di pezzi di unghie e di aghi di metallo. Dopo un’oretta di questa  messinscena mi ha raggiunto un ufficiale che parlava inglese, seguito da un subordinato che ha subito richiamato perché pulisse immediatamente la scrivania, mentre il suo superiore mi sorrideva.

 

Quest’ultimo ha poi eseguito un controllo d’identità di routine, poi mi ha preso per un braccio e mi ha portato in un altro locale, dove mi hanno tolto le manette e sottoposto ad un interrogatorio molto gentile. Non avendo niente da nascondere ho risposto a tutte le domande e credevo aver soddisfatto l’ufficiale, fino a quando mi ha fatto vedere su un computer portatile su di un tavolo vicino, quello del comandante del posto, le fotografie che avevano scaricato dalla mia chiave usb, fotografie scattate a Tal-Biseh, sulle quali io ero in compagnia di combattenti dell’ASL, dei « terroristi ». Tuttavia ha tenuto a rassicurarmi del fatto che capiva bene che, nell’ambito delle mie ricerche, la cosa era normale, che, anche se avevo commesso un reato incontrando quei « terroristi », mi avrebbe aiutato in questa faccenda, e che nel giro di qualche ora sarei stato libero. « You are our guest and this place is now your second home », mi ha detto ; non sapevo bene come interpretare il suo sorriso…

 

Allora mi hanno proposto di riposarmi, non in una cella ma nel dormitorio degli agenti di sicurezza, dove mi hanno fatto sdraiare su una brandina.

 

Molto presto però, due agenti che non avevo ancora visto sono venuti a cercarmi e mi hanno condotto in una sala dove c’era un altro ufficiale. Quest’ultimo mi ha fatto cenno di togliermi la camicia e le scarpe. Molto spaventato per la direzione che prendevano velocemente gli eventi, ho obbedito. I suoi due accoliti mi hanno legato con una cinghia ad un tubo che pendeva dal soffitto. Le cose diventavano chiare... Un quarto uomo ha portato due secchi d’acqua e degli stracci, mentre mi ammanettavano le caviglie, poi è uscito chiudendo la porta dietro di lui. Uno dei subordinati mi ha tolto i calzini, infilandomeli in bocca. Poi sono stato colpito, sulla schiena, sulle reni, sull’addome e sul torso : si potrebbe credere che non sia gran cosa, ma dopo qualche colpo solamente il dolore diviene così forte che ho creduto di soffocare e perdere conoscenza più volte.

 

Mentre i suoi uomini colpivano, l’ufficiale mi faceva delle domande, in un pessimo inglese, ordinandomi nello stesso tempo di stare zitto. Ma, imbavagliato, come avrei potuto rispondergli ? Soprattutto non lo sentivo ormai più.

 

Dopo non so più quanto tempo di questo trattamento mi hanno tolto il bavaglio ; sono stato allora staccato dal tubo a cui ero legato, riammanettato e seduto su una sedia, di fronte ad un tavolo sul quale l’ufficiale ha rovesciato una scatola di aghi di metallo. Mi ha lasciato il tempo di riprendere il respiro, mentre lui giocava con uno degli aghi tra le dita.

 

I due subordinati mi hanno preso ciascuno per un avambraccio ed un polso, tenendomi strettamente sul tavolo. L’ufficiale ha preso il mio indice sinistro tra le sue dita ed ha introdotto l’ago sotto la mia unghia, senza piantarlo, muovendolo lentamente sotto l’unghia. Mi ha parlato delle mie relazioni con i « terroristi » e mi ha chiesto perché mi muovevo da solo in Siria, facendo fotografie; se io lavorassi per un servizio segreto straniero, per i francesi; perché mi muovevo da un posto all’altro, occupandomi dei « terroristi »...

 

Io ho ripetuto tutto quello che avevo già detto, cosa che sembrava accontentarlo. Ma lui ha ordinato che mi attaccassero di nuovo al tubo e che mi imbavagliassero, mentre chiamava un quarto uomo nel corridoio. Il quarto uomo è entrato nella stanza con una scatola munita di un grosso interruttore e di schermi ad aghi. E’ lui che mi ha applicato sul petto due piccole pinze metalliche collegate alla scatola. Ha fatto girare lentamente l’interruttore; all’inizio non ho sentito che del pizzicorio, ma dopo qualche secondo il dolore e divenuto più forte; più girava l’interruttore e più la sensazione di bruciatura, una bruciatura lancinante, diventava forte. L’ufficiale si è avvicinato e mi ha sputato sul petto; con le dita ha bagnato di saliva la pelle a contatto con le pinze, cosa che ha provocato un'accelerazione improvvisa del flusso elettrico, e un dolore violento. L’agente ha giocato con l’interruttore, diminuendo ed aumentando l’intensità del flusso. Poi mi hanno liberato da questo apparecchio e staccato dal tubo, ammanettato sul dorso e sdraiato sul tavolo, ancora imbavagliato, senza farmi alcuna domanda.

Gli agenti mi tenevano stretto, uno per le spalle e gli altri due per le caviglie, ancora ammanettate. L’ufficiale mi ha detto di calmarmi, che tutto era in ordine, che rimaneva solamente una formalità: allora ha preso una bacchetta di plastica bianca che penzolava alla valvola del termosifone ; mi hanno steso le gambe sul tavolo, la testa penzoloni davanti, e mi ha dato 23 colpi sulla pianta dei piedi. Li ho contati uno a uno. L’ufficiale mi ha guardato, con uno sguardo quasi amichevole: « you don’t need handcuffs, now ». I suoi sottoposti mi hanno riportato sulla mia brandina, alla quale mi hanno legato.

 

Quanto tempo è durato tutto ciò?

 

Ho sofferto parecchio dolore. Ma ne sono uscito vivo: delle costole ammaccate e qualche leggera bruciatura; quasi niente in confronto a quello che avrei visto e di quello che mi avrebbero raccontato più tardi i miei compagni di cella della prigione di Bab al-Musalla, a Damasco. « E’ perché tu sei occidentale, mi hanno detto; non hanno osato andare oltre; se tu fossi stato arabo avresti subito le stesse cose di quel giornalista di al-Jazeera: lui era qui qualche giorno prima di te; gli hanno spappolato le mani e rotto tutte e due le ginocchia ». Si, ho sofferto parecchio dolore, ma non era niente, una piccola sberla rispetto a quello che avrei visto per il resto della notte.

 

La testa della mia brandina si trovava davanti alla porta della stanza che dava sul corridoio. Qualche minuto dopo esservi stato portato ho cominciato a sentire tutta una serie di rumori dietro questa porta.

 

E il rumore dei colpi è cominciato; i colpi e le urla; molto forti all’inizio, poi sordi, soffocati dai bavagli. I lamenti, i gemiti, quando i boia lasciavano respirare le loro vittime, quando il fracasso dei colpi cessava, per un momento. E poi i colpi riprendevano; « halas, sidi; halas, sidi! ». « Basta signore; basta signore! ». E i loro pianti.

 

Capivo adesso quella cosa strana, perché gli agenti nei loro dormitori dormivano con la radio accesa a tutto volume. In verità avevo già avuto qualche sentore del motivo.

 

All’inizio gli agenti che andavano e venivano nel dormitorio per darsi il cambio avevano cura di richiudere la porta dietro di loro;  più tardi non fecero più caso alla mia presenza; la porta e’ rimasta completamente aperta a più riprese; sentivo tutto, e vedevo tutto.

 

L’orrore allo stato puro; senza veli, nudo, semplice; come il cinema con tutti i suoi effetti speciali non potrebbe mai fare provare, e che io non riesco, nel momento in cui scrivo, a rappresentare del tutto con le parole. E di questo chiedo perdono a coloro che giacevano in quel corridoio, in mezzo al loro sangue, alla loro urina, al loro vomito.

 

Io ero là; io ho visto; io non ho fatto nulla, terrorizzato, vergognosamente non ho detto nulla, mentre una immensa disperazione mi invadeva.

 

Un agente è entrato bruscamente nella stanza; mi ha fissato negli occhi; in una mano teneva un paio di manette e nell’altra un filo elettrico con le estremità scoperte e all’altro capo una presa. Ho creduto fosse per me.

 

Il fatto è che le cose per me erano chiare; io non avevo alcuna speranza di lasciare quel luogo, non vivo. Se mi lasciavano vedere tutto ciò era perché la decisione era presa: presto o tardi avrebbero ripreso il lavoro sul mio corpo, più duramente questa volta, andare fino in fondo, raccogliere il più possibile informazioni da me e poi finirmi. Cosa glielo avrebbe impedito d’altronde? Avrebbero messo tutto sul conto dell’opposizione, dell’ASL.

 

Poco prima di essere prelevato dai servizi avevo dato due interviste, mentre attendevo al check-point all’entrata di Tal-Kalakh: una a Jacques Aristide di Voice of America e una a Laurent Caspari della Radio Svizzera Romanza. L’ultima qualche secondo prima di essere arrestato. Avevo spiegato a Laurent Caspari che avevo appena ricevuto l’autorizzazione ad entrare a Tal-Kalakh, città in parte controllata dai ribelli.

 

L’uomo con la presa elettrica è ripartito; non era per me. Qualche minuto dopo, ancora una volta, le luci delle lampadine elettriche che illuminavano la stanza sono diminuite e delle grida hanno rotto il silenzio. La porta si è riaperta ed ho visto: le bruciature sono profonde, l’elettricità entra nella carne e la carbonizza la dove passa.

 

Finalmente è giunta l’alba; un poca di luce penetrava nella stanza da una piccola feritoia. Non molto lontano sentivo le cannonate dei carri armati dell’esercito governativo sulle postazioni ribelli di Baba Amr, dove supponevo, o avevo sentito dire, rimanevano ancora delle sacche di resistenza.

 

Ne ero ancora convinto: non avevo nessuna speranza di uscirne vivo; era il momento in cui per me tutto finiva; in cui tutto finiva, lentamente, con le sofferenze atroci a cui avevo assistito tutta la notte. In quel luogo sporco e sordido.

 

Ho girato il viso verso il muro di fronte alla porta e con l’unghia del pollice ho inciso una piccola croce sull’intonaco; cattolico, mi sono confessato a Dio; gli ho promesso che, se ne fossi uscito vivo, avrei raccontato a tutti quello che avevo visto quella notte; e l’ho promesso anche a quelli che giacevano nel corridoio; ho detto le mie preghiere e ho aspettato.

 

Le urla sono finite; non sentivo più che qualche pianto, attraverso la porta. Gli agenti erano rientrati nella loro stanza, uno dopo l’altro; dormivano; la radio era spenta.

 

Verso le nove (ho visto l’ora sull’autobus), sono venuti a prendermi; un agente mi ha liberato dalle manette e mi ha fatto capire che dovevo mettermi le scarpe e la camicia. Quando ha aperto la porta sono sbiancato alla vista dei corpi senza vita distesi lungo il corridoio; l’agente mi ha guardato, come stupito dalla mia reazione, e mi ha spinto verso le scale, verso l’uscita, in un autobus della polizia, che ci ha portato, quattro detenuti oltre a me, in un altro centro dei servizi segreti, a Damasco. Si trattava del centro di Palestine Branch, oggetto di un attentato nei giorni precedenti. Durante tutto il percorso i soldati hanno cantato dei canti patriottici, in onore al presidente Bashar al-Assad.

 

Dopo avermi completamente spogliato e avermi sottoposto a due perquisizioni fisiche estremamente minuziose, sono stato di nuovo interrogato. Questa volta non mi hanno toccato; non ho subito che delle intimidazioni indirette: mentre mi facevano le domande un uomo colpiva, proprio al mio fianco, un armadio di ferro con un lungo pezzo di legno; e molti agenti torturavano di fronte a me un vecchio a cui avevano bendato gli occhi; lo spingevano per farlo cadere, lo colpivano al suolo, lo sollevavano e ricominciavano.

 

Alla fine niente brandina questa volta, ma il nudo suolo.

 

Quando le autorità siriane hanno capito che non rappresentavo alcun pericolo per loro sono stato rinchiuso in una cella sotterranea, nella prigione civile di Bab al-Musalla, per essere espulso dal paese.

 

Sono stato trasferito con una camionetta senza finestre. Di fronte a me un ragazzo di quattordici o sedici anni, ammanettato sulla schiena e con gli occhi bendati. Le sue gambe nude erano bruciate dall’elettricità, coperte di crateri neri della dimensione di un bottone.

 

Sono stato scaricato dal furgone prima di lui. Non so dove l’abbiano portato, né che ne è stato di lui. E non conosco il suo nome.

 

Mi hanno rinchiuso in una cella con dei prigionieri politici la cui solidarietà è stata eccezionale; mi hanno curato, mi hanno dato da mangiare, mi hanno aiutato a lavarmi, mi hanno prestato un telo e una coperta.

 

Alcuni di loro si trovavano in quel sotterraneo da più di due anni, senza respirare l’aria pura, senza vedere il sole né sapere se fuori era giorno o notte. La maggior parte di loro era stata torturata prima di finire li. Ahmed mi ha raccontato dei suoi 28 giorni nelle mani dei servizi, di come lo colpivano a colpi di bastone più volte al giorno, per circa un mese, un martirio senza fine…

 

Ho incontrato in questa prigione detenuti di molte nazionalità: algerini, sauditi, iracheni, sudanesi, somali, palestinesi, siriani chiaramente, di cui una buona parte, dovendo essere espulsi dal paese, attendeva da un’eternità, l’eternità umana della reclusione, in attesa di un ordine o di un aiuto che li facesse uscire da quel buco. La storia più triste è quella di Muhammad, kashmiro, chiuso la dentro da più di sei mesi; per l’ambasciata indiana è pakistano, per quella del Pakistan è indiano. Tutti i suoi familiari sono morti, è solo al mondo. Più volte al giorno si siede in un angolo a piangere in silenzio. C’è anche Ali, un Kazako, arrestato, passaporto perso; la sua ambasciata gli ha detto che lui non è iscritto nei registri della popolazione; da mesi marcisce laggiù, senza identità; non esiste più. Abbandonato alla sua sorte, come molti rifugiati nonostante siano in possesso di un passaporto rilasciato dall’ONU; corrotti fino all’osso a Damasco, i funzionari siriani dell’ONU preposti ai rifugiati trattano solamente i dossier di quelli che possono pagare.

 

Poiché tutto si paga. Al suo arrivo il prigioniero vuota le sue tasche e apre il suo bagaglio, se ne ha uno. I guardiani si eccitano; i loro occhi si infiammano alla vista dei biglietti di banca. Confiscano quello che li interessa: vestiti, scarpe, profumi… Si dividono una parte dei soldi, alle volte tutti. Nel mio caso hanno preso tutto quello che mi avevano lasciato gli agenti dei servizi. Chi non ha parenti fuori, per pagare, non riceve che un pasto al giorno, sempre lo stesso, e nemmeno tutti i giorni: delle gallette, delle cipolle; una scodella di riso viene lasciata al centro della cella e i detenuti le si gettano sopra.

 

Niente sapone. Niente spazzolino da denti. Nessun indumento pulito.

 

Senza soldi e senza poter telefonare mi trovavo anch’io in questa situazione kafkiana; essendo stato espulso per uscire da questa situazione è necessario che qualcuno fornisca un biglietto aereo a nome del detenuto, che allora viene accompagnato alla prigione dell’aeroporto in attesa del volo. Ma nessuno sapeva che mi trovavo a Bab al-Musalla.

 

Con la complicità dei miei compagni di cella ho potuto fare passare un messaggio all’esterno, pagando un guardiano. Il ministero degli Affari Esteri belga ha immediatamente messo tutto in opera per farmi uscire dalla Siria. Sono stato liberato il 23 maggio.

 

Il giorno prima della mia liberazione un giovane siriano è arrivato a Bab al-Musalla. Era stato arrestato dalla polizia poiché si era fatto fare un passaporto falso e si nascondeva per sottrarsi al servizio militare. « Mi obbligheranno ad uccidere delle persone innocenti », mi ha detto, « ma io preferisco uccidere me stesso ». Nel momento in cui io lasciavo la prigione lui veniva consegnato ai servizi segreti. Mi ha detto il suo nome e, tramite su facebook, sto cercando di contattarlo da quel giorno. Invano.

 

I sei giorni d’inferno che ho vissuto, la notte durante la quale sono stato torturato, a Homs, e soprattutto durante la quale ho visto i miei compagni di sfortuna essere torturati in modo estremamente più violento di come l’abbiano fatto con me, sono stati dei momenti di sofferenza fisica e psicologica intensa. Nondimeno, non rimpiango il fatto di essere stato testimone di tutto ciò; ora devo testimoniare, per tutti quelli che ho lasciato dietro di me.

 

Fino ad oggi, riguardo alla Siria, ho sempre difeso i principi del diritto westfaliano e quelli della sovranità nazionale e della non ingerenza. Ho denunciato le guerre neo colonialiste in Afganistan, in Iraq o in Libia, motivate dagli appetiti economici e dalle considerazioni geostrategiche, i cui « scopi umanitari » non erano altro che dei pretesti e dei paraventi.

 

Ma di fronte all’orrore che ho scoperto, per ognuno degli uomini che ho visto mutilati atrocemente da dei barbari al servizio di una dittatura di cui non immaginavo l’audacia e la ferocia, mi unisco agli appelli per un intervento militare in Siria, che possa rovesciare l’abominio del regime baath; anche se il paese dovesse cadere nella guerra civile, se questo passaggio difficile è necessario, deve essere intrapreso, affinché si ponga fine a quarantadue anni di terrore organizzato in una proporzione di cui non avevo idea.

 

Non parlerò a nome dei siriani. Riporto semplicemente il messaggio che mi hanno dato i combattenti dell’ASL, i compagni di cella torturati a morte, gli amici di Bab al-Musalla, unanimi: Bashar al-Assad ha i suoi sostenitori, fra gli Alauiti, i Cristiani, e fra le altre minoranze, anche fra i Sunniti che temono l’islamismo radicale; ma « la maggioranza della popolazione non vuole più vivere in questo stato che non è uno stato ma un regime. L’ASL è pronta. Controlla già più roccaforti ed è presente anche nelle grandi città, a Damasco, a Aleppo, invisibile, in attesa del momento dell’insurrezione generale. Ma questo momento può arrivare solo se le democrazie occidentali portano un appoggio concreto, militare. L’ASL non ha i mezzi militari per far fronte all’esercito del regime, un’armata ben equipaggiata, che si sta imponendo nelle battaglie da più di un anno senza nemmeno utilizzare le sue unità speciali di mezzi blindati né l’aviazione né gli elicotteri, un esercito che il regime ha modellato in modo tale che gli resti fedele. L’ASL può battere il regime solo se l’occidente distrugge i mezzi pesanti, i carri e gli aerei. E, se l’occidente apporta questo sostegno, fiumane di gente si riverseranno nelle strade e un gran numero di militari si unirà alla rivoluzione; ma, per il momento, sanno che il regime è forte e che sta vincendo; hanno paura. Ma nessuno ci vuole aiutare. I paesi occidentali parlano molto, guardano, ma non fanno niente. Perché non c’è niente da prendere, da noi. Il regime lo sa. E’ per questo che non esita a torturare, a uccidere, a bombardare. Sa che nessuno farà niente. Che non ha nulla da temere. Noi siamo soli. » (J., a Bab al-Musalla)

 

La Siria non presenta alcun interesse economico che possa appetire le potenze occidentali e motivarle ad intervenire. Al contrario, su un piano geostrategico, il governo di Bashar al-Assad ha il sostegno degli Stati Uniti che conduce verso di esso una politica di avvicinamento dal 2001, di Israele a che garantisce una perfetta sicurezza sulla frontiera del Golan, dell’Unione Europea che acquista il 98% del petrolio siriano e guarda con occhio inquieto la destabilizzazione di questo paese perno degli equilibri del Medio Oriente, della Cina e della Russia di cui la Siria è l’ultimo alleato arabo, con uno sbocco sul mediterraneo.

 

Un intervento militare occidentale, che forzerebbe la posizione russa, costituirebbe certamente un caso unico di impegno da parte delle potenze in un’impresa da cui non trarrebbero alcun profitto.

 

Incha’Allah.

 

Pierre PICCININ (Politologo e storico, Bruxelles)

In Libano e Siria, dal 12 al 23 maggio 2012

 

Traduzione : Michele PISCITELLI

 

 

 

 

Le Monde.fr - L'Espresso - Le Soir.be - Neue Luzerner Zeitung

 

 

 

 

carte syrie

 

 

© This article may be freely published under condition of mentioning the source (www.pierrepiccinin.eu)

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